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Euro: usciamo o no? Controversie e segreti verso il 25 maggio (archivio Tgvallesusa)

cartina-europa
di Davide Amerio

Ci siamo quasi. Mancano pochi giorni. L’atmosfera è calda, i leader si lanciano missili terra-aria: botte e risposte più che altro sulla credibilità. Poca -al solito- la sostanza.

La questione euro diventa oggetto di scontro con sapore calcistico -un copione già visto. Per alcuni esso rappresenta l’unica àncora di salvezza per l’Italia: non si può immaginare di farne a meno e di derogare agli accordi sottoscritti con l’UE pena l’apocalisse.
Altri, dopo aver partecipato a governi firmatari degli impegni assunti, oggi si presentano come anti-euro duri e puri, propongono uscite immediate e imbarcano economisti di pregio com’è il caso della Lega con Claudio Borghi. 



La lista degli economisti “dissidenti” sulla validità dell’Euro e che considerano l’attuale struttura dell’Unione Europea e la moneta unica un vero cappio al collo (con tanto di nodo a strozzo) per le economie dei paesi più deboli, è molto ricca e si  avvale di nomi qualificati; per citarne alcuni italiani, oltre al già menzionato Borghi: Antonio Maria Rinaldi,  Alberto Bagnai  e Paolo Savona.
 
La materia economica è certamente complessa ma questi studiosi, nonché docenti di economia, hanno intrapreso l’impegno della divulgazione per informare i cittadini italiani su ciò che è realmente accaduto (ovviamente dal loro punto di vista) con l’entrata in vigore dell’Euro e cosa ci attende perseguendo la strada della moneta unica e le politiche di austerity nel rispetto dei trattati attuali e futuri.
Argomento vasto nel quale cerchiamo di introdurci anche noi  con la guida di questo “pensiero eretico” per cercare di capire i meccanismi che governano la nostra vita, spesso a nostra insaputa, con esiti tutt’altro che gradevoli alimentando preoccupazioni per il futuro.
Per capire l’economia attuale occorre fare riferimento alla storia degli eventi, e delle idee, che hanno condotto a compiere scelte di politica economica in determinati momenti.

Muro di Berlino

La dichiarazione dell’ex capo della Bundesbank (Banca Centrale tedesca) Karl Otto Pohl è inequivocabile: “Forse l’Unione monetaria Europea non sarebbe stata mai realizzata senza la riunificazione tedesca” [1]


La preoccupazione dei Francesi sul ritorno di una “grande” Germania a seguito della caduta del muro di Berlino nel 1989 condusse a considerare la necessità di una moneta unica per contrastare i tedeschi su un piano di parità in ambito industriale. La Germania si diede disponibile ad una moneta unica in cambio di aiuti per supportare la gravosa integrazione della Germania dell’Est.

Edmund Khol

Il processo di costruzione dell’unione, durato dieci anni, viene giocato su un tavolo al quale siedono da una parte François Mitterrand (per la Francia), Helmut Kohl (per la Germania) mentre per l’Italia siedono alternativamente 17 (diciasette!) Presidenti del Consiglio (ovviamente alcuni più volte ma in rappresentanza di governi differenti) aventi alle spalle maggioranze diverse e di tutti i colori [1]. Questo dato ci offre la misura di quanto possa essere stata “omogenea”  la linea tenuta dall’Italia nel tutelare i propri interessi nazionali nei confronti degli altri due paesi.

La mancanza di una linea politica coerente, soprattutto con i nostri interessi nazionali, ha caratterizzato il contributo dell’Italia nella definizione dei parametri e questa assenza ha infine pesantemente influito nella definizione del tasso di conversione della Lira all’Euro.
 
La valutazione dei parametri macroeconomici ha avuto come tema centrale il debito delle singole nazioni partecipanti.  Se, per esempio, fosse stata considerata la natura del debito italiano si sarebbe dovuto tenere conto di altri fattori [1]:
1) Il 90% di quel debito era detenuto dall’Italia
2) Questo debito interno aumentava il reddito disponibile per famiglie e imprese (cedole e interessi)
3) Il risparmio complessivo delle famiglie era molto alto e l’80% di esse era proprietario di immobili.
 
Antonio Maria Rinaldi

Come sottolinea Rinaldi [1] in questo passaggio:

A fine 2010 il debito pubblico gravava per 31.100 euro su ogni cittadino (dal neonato al centenario) a fronte però, secondo stime ufficiali della Banca d’Italia del 2009, di una ricchezza molto più cospicua. Esattamente la ricchezza netta delle famiglie italiane, cioè derivata dalla somma delle attività reali (case, terreni, ecc.) ed attività finanziarie (depositi c/c, titoli, azioni, ecc.) al netto delle passività finanziarie (mutui, prestiti, indebitamenti vari) era pari a più di 143.300 euro pro-capite (sempre dal neonato al centenario), addirittura 4,3 volte il debito!!!
Praticamente il debito pubblico di 1.875 miliardi di euro della Nazione Italia (ultimo dato disponibile febbraio 2011) è strabilanciato dagli oltre 8.700 miliardi, sempre di euro, di patrimonio netto detenuto dai suoi cittadini.
 
Pertanto ne deriva che l’indebitamento medio di ogni famiglia italiana è pari a 21.250 euro, contro i 36.150 euro di quelle francesi, i 37.800 euro di quelle tedesche e i 55.900 euro di quelle spagnole.
Perché i governi, i rappresentanti, i delegati italiani non hanno saputo far valere questi numeri e hanno lasciato spazio alle volontà -e agli interessi- della Francia e della Germania?
Forse perché hanno affrontato questa “unione” con lo stesso spirito con cui la politica nazionale approccia da sempre le elezioni del Parlamento Europeo: la creazione di un poltronificio dove collocare i trombati a livello nazionale o i rompiscatole.
 
Parlando dei  requisiti da rispettare secondo gli accordi di Maastricht si scoprono cose molto “curiose”. Ciascuno di noi tende a ritenere che questi parametri siano frutto di ampi studi economici dal momento che come cittadini siamo portati a considerare autorevoli e credibili le istituzioni cui abbiamo demandato il governo dell’economia. Invece no.

Francois Mitterand
 Sembra una barzelletta… ma purtroppo non lo è. Sapete come è stato determinato il famoso 3% come vincolo del rapporto tra deficit pubblico e PIL? Rinaldi ce lo racconta citando un articolo apparso sul giornale Le Parisien in data 28 settembre 2012 nel quale l’ex funzionario della Direzione del Bilancio francese Guy Abeille illustra come si è giunti alla definizione dei famosi -famigerati- parametri [2]: “Mitterand ha inventato in fretta e furia questa cifra emblematica e abbiamo stabilito la cifra del 3% in meno di un’ora. E nata su un tavolo senza nessuna riflessione teorica. Il presidente aveva bisogno di una regola facile da opporre ai ministri che si presentavano nel suo ufficio a chiedere denaro. Avevamo bisogno di qualcosa di semplice. Tre per cento? E un buon numero, un numero storico che fa pensare alla trinità”.

Carmen Reinhart e Kenneth Rogoff sono due autorevoli studiosi presso la prestigiosa università di Harvard. Rogoff è stato economista del FMI (Fondo Monetario Internazionale) e della Federal Reserve americana. Nel periodo in cui stava scoppiando la crisi della Grecia Reinhart e Rogoff pubblicarono uno studio intitolato “Growth in a Time of Debt” (crescita nel tempo del debito).

Reinhart & Rogoff

Questo studio, racconta Federico Rampini [3], doveva essere la prova scientifica che se il debito pubblico di una nazione raggiunge la soglia del 90% del Pil diventa un ostacolo insuperabile alla crescita. Questa cifra fu immediatamente adottata come un dogma e ripresa da organizzazioni internazionali e governi come quello di Angela Merkel e la Commissione Europea.

Peccato che questo fondamento sia stato smontato da un giovane dottorando Thomas Herndon– che preparava la sua tesi di PhD alla University of Massachussetts di Amherts. Cercando di replicare lo studio, lo studente si imbatte in alcuni clamorosi errori commessi dai due studiosi redattori dello studio. Due categorie di errori che si potrebbero definire quasi banali: errori nelle sommatorie dei calcoli effettuati con il software Excel e omissione di classificazione – tra le nazioni esaminate – di ben tre casi (Canada, Australia, Nuova Zelanda) nei quali la crescita economica non era stata per niente penalizzata da un elevato debito pubblico.

Thomas Herndon

 

Conclude Rampini [3]:

I grandi nomi del pensiero neokeynesiano, da Krugman a Stiglitz, non avevano mai accettato il dogma di Reinhart-Rogoff. Ma le loro contestazioni volavano alto, troppo alto. Nessuno si era imbarcato nella fatica di fare il lavoro “operaio” del 28enne Herndon: prendersi tutti i numeri, uno per uno, e rifare le addizioni.
Siete sobbalzati dalla sedia? Avete imprecato almeno un pochino? Bene… ricordatevelo il 25 maggio quando vi recherete alle urne e se pensate di non votare questo dovrebbe essere una sollecitazione invece a farlo per evitare di continuare a lasciare che “altri” decidano irresponsabilmente delle nostre vite e per contrastare quel gregge di politici che continuamente bela “lo vuole l’Europa” anziché battere i pugni sul tavolo dicendo “è necessario per l’Italia“…
 
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[1] Antonio Maria Rinaldi – Il fallimento dell’Euro – 2011
[2] Antonio Maria Rinaldi – Europa Kaputt – 2013 ediz. Piscopo
[3] Federico Rampini – La trappola dell’austerity – Edizioni Laterza – La Repubblica 2014

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