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Torino per il ballottagio lettera aperta su Micromega di d’Arcais

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Pubblichiamo (con l’autorizzazione dell’editore) la Lettera Aperta pubblicata sulla rivista nella versione Web (www.micromega.net)

di  Paolo Flores d’Arcais

Cari amici, Torino è una città che ho ‘scoperto’ a metà degli anni ’60, quasi contemporaneamente all’impegno civile e politico, ‘malattia’ che ho contratto agli inizi di quel decennio e da cui fortunatamente non sono mai riuscito a guarire. Le prime amicizie fuori dalla mia città sono state proprio a Torino, e da allora il numero degli amici torinesi non ha fatto che crescere, coinvolgendo col tempo generazioni più giovani. Torino, insomma, dopo Roma (in cui vivo dall’età di tre anni) è la città italiana cui mi sento più legato per intreccio di affetti, prolungati e moltiplicati nel tempo. Ed è dunque ai tanti amici e ai compagni di tante lotte che mi rivolgo.

Cari amici, per dirla senza perifrasi, ho difficoltà a capire come oggi, per ogni democratico che della repubblicana nata dalla Resistenza e dei conseguenti valori di “giustizia e libertà” che ne animarono la nascita, abbia fatto la bussola del suo orizzonte etico-politico, possano esservi dubbi su come votare domenica prossima al che eleggerà il sindaco.

costituisce infatti la quintessenza, sciorinata in quasi mezzo secolo per atti ed omissioni, dichiarazioni e ipocrisie, essoterica untuosa cordialità ed esoterica incoercibile arroganza, della degenerazione costante, progressiva, e infine galoppante del Pci, con tutte le sue nobiltà d’antan malgrado i macigni staliniani, da partito dei lavoratori, degli oppressi, degli emarginati, a coacervo dei più vieti e non sempre confessabili interessi di establishment.

Piero Fassino rappresenta la sinossi vivente di quella che Riccardo Lombardi a proposito del Psi definì la mutazione antropologica del partito, e volle stigmatizzare con gesto definitivo, prendendo platealmente a  schiaffi il suo delfino Cicchitto che aveva aderito alla P2.

Il Pci>Pds>Pd (ma chissà quante altre sigle dimentico) ha saputo ahimè rinverdire quei nefasti, anziché trarne lezioni, magari imparando anche da Mani Pulite (inchiesta in cui finì soprattutto la sua ala “migliorista”, come sappiamo): P3, P4, Mafia Capitale, e tutto il resto di sbocciare di letame dai fiori che abbiamo dovuto constatare in questi anni di inciucio. In questa parabola di metamorfosi viziosa quello che fu il partito della sinistra si è dapprima piegato a, e infine impastato con i poteri finanziari, la cui trasparenza e serietà è sotto gli occhi di tutti (al punto che un numero crescente di cittadini è costretto a domandarsi se non avesse ragione Bertolt Brecht quando poetava che fondare una banca è più criminale che rapinarla) e con ogni oligarchia del trafficare.

Il Pd di Renzi è ormai ovunque, e massime a Torino, solo un ingrediente dell’intreccio politico-finanziario, che in molte regioni sempre più si coniuga come intreccio politico-finanziario-corruttivo ma che a tale deriva è destinato anche laddove la ruberia sistematica e illegale non lo avesse ancora toccato. Destino ineluttabile, quando si diventa il partito degli affari (e in questa chiave si intende il partito della nazione), il partito della discriminazione e degli amici favoriti rispetto al merito. Che così prima o poi si finisca a diventare il partito anche “degli amici degli amici” è nelle cose ed è solo questione di tempo.

Perché la deriva renziana, di cui Fassino è espressione organica e per molti versi anzi antesignana, costituisce il rovesciamento puntuale e tragico della gramsciana egemonia delle classi subalterne: il tronfo trionfo, il sabba esibito e indecente, l’apoteosi sgangherata dei nuovi ricchi (le prime dieci famiglie sono l’equivalente in ricchezza di sei milioni di italiani, qualche anno fa erano tre milioni, vi sembrano cifre che consentano di tollerare sulla scena pubblica chiunque non metta la guerrasenza quartiere al privilegio e alle diseguaglianze, e alla corruzione che ne è benzina, come primo e non negoziabile punto del programma e dell’azione politica?), dei nuovi potenti e insomma delle Nuove Cricche. L’infastidito scrollarsi di dosso, come antichità di parrucconi, di ogni speranza di maggiore eguaglianza, di maggiore giustizia, e infine di “tanticchia” più di decenza da parte di chi gode il privilegio del potere e/o della ricchezza.

Ma anche il rovesciamento compiuto e disgustoso dell’intransigenza etico-politica gobettiana, che ammoniva: “dove prevale senza incertezze una maggioranza si ha nient’altro che un’oligarchia larvata” e che “l’attitudine prima dell’uomo di governo e dell’uomo di partito sarebbe quella di sapersi fermare al momento giusto, prima di decidere: la virtù del dubbio e della sospensione del giudizio, la capacità di dar ragione all’avversario è la miglior preparazione all’intransigenza e all’intolleranza operosa”. Per Gobetti “il contrasto vero” è “tra libertà e unanimità” e “il problema italiano non è di autorità ma di autonomia” e la funzione moderna di un partito consiste nel far “sentire la dignità del rispetto della legge”. Con Renzi (si parva licet) siamo smaccatamente agli antipodi. Del resto così Gobetti dipinge il politico dell’aggressione sistematica contro le libertà: “la sua figura di ottimista sicuro di sé, le astuzie oratorie, l’amore per il successo, la virtù della mistificazione e dell’enfasi …”. C’è bisogno di continuare?

Fassino si è stizzito perché ha ricordato i nuovi poveri che riempiono anche Torino, statistiche inoppugnabili di fonte non certo “bolscevica”, la Caritas. Come le tre scimmiette, Fassino non vede, non sente, non parla. Nelle corde di Fassino c’è da tempo ormai solo San Paolo (non quello di Tarso, la banca, ovviamente) e San Marchionne: come possano votare Fassino militanti delle sezioni che non sono certo inzuppati in quel mood di privilegi smodati e arroganti, privilegi che vogliono solo crescere ancora, e ancora, ad hybris insaziabile, resta per me incomprensibile “mistero obbrobioso” e soprattutto irrazionale. Già mezzo millennio fa Etienne de la Boétie lo chiamava bisogno di “servitù volontaria”.

Spero perciò in voi, amici torinesi, perché si chiuda un capitolo e se ne apra un’altro. Non di certezze, sia chiaro, abbiamo vissuto troppe delusioni (e di alcune siamo stati corresponsabili), ma almeno di baluginare di speranze. MicroMega non si è mai nascosta, e io personalmente, quanti insopportabili difetti e contraddizioni segnino il . Ma oggi la polemica contro i loro candidati, feroce e spessissimo disonesta, trova nel refrain del “sono  eterodiretti” la sua sola punta di diamante. Eppure i tentativi che a Roma e Torino le due candidate stanno facendo per avere come assessori nei campi cruciali (urbanistica, sistema dei trasporti, cultura, smaltimento dei rifiuti) le energie delle personalità più eminenti e indipendenti, per la loro caratura professionale e di passione civile, raccontano una storia opposta. Prendiamone atto, invece che farci affatturare una volta di più dagli aedi della partitocrazia che vuole affossare la Costituzione anziché realizzarla.

(1 2016)

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